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ACQUA S.P.A. Dall'oro nero all'oro blu

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ACQUA S.P.A. Dall'oro nero all'oro blu
di Giuseppe Altamore
Mondadori 2006, 232 pp., euro 8,40

Un'inchiesta a tutto tondo sull'acqua e sui mille scandali che le ruotano attorno, in Italia e non solo: dalla presunta miglior qualità delle acque in bottiglia al losco affare della privatizzazione delle risorse idriche, con uno sguardo sulla realtà europea e sulla situazione mondiale, con il preoccupante profilarsi di uno scenario in cui proprio l'accesso alle risorse idriche marcherà ancora di più il solco che divide ricchi e poveri.

Per gentile concessione della casa editrice pubblichiamo l'introduzione e un capitolo da "Acqua S.p.A.", © 2006 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

Sconosciuto

Introduzione

La voce ormai ha fatto il giro del mondo. In un grande magazzino londinese hanno messo in vendita delle bombolette con una strana etichetta: ARIA PURA DI MONTAGNA. «Respirate a pieni polmoni senza temere lo smog» recita uno slogan ad effetto. Vi pare assurdo acquistare dell'aria? Eppure è già successo con l'acqua. In quei contenitori di Pet, che faticosamente ci portiamo a casa, è racchiusa una ricchezza naturale, un bene comune, che arriva a costare oltre un euro al litro. Ce l'hanno data a bere per decenni, fino a convincerci che le bollicine fanno addirittura ringiovanire.
Qualcosa di analogo è accaduto anche ai nostri acquedotti, ormai controllati da società per azioni, sia pubbliche sia private, ma la sostanza non cambia. Sfruttando abilmente una legge del 1994 e del 2000, comuni e Province hanno ceduto le loro quote azionarie a un gestore unico, a un'azienda privata o addirittura a una multinazionale. Sono sicuro che molti di voi non hanno mai avuto sentore che qualcuno stava per svendere un bene comune a finanzieri senza scrupoli, mentre le bollette lievitavano per soddisfare gli obiettivi di bilancio dei venditori d'acqua.
Tra il 1997 e il 2003 gli acquedotti trasformati in società per azioni passano da 56 a 71. La corsa alla privatizzazione sembra inarrestabile e il servizio idrico è ormai un'industria come tante che produce utili e dividendi per grandi e piccoli azionisti. Gruppi stranieri come Suez, Veolia Water e Saur ma anche società italiane del livello di Italgas (Eni), Enel, Edison ed ex società pubbliche, le cosiddette vecchie municipalizzate della portata di Acea di Roma, Hera di Bologna, Amga di Genova o ex enti come l'Acquedotto Pugliese S.p.A. sono in gioco per accaparrarsi l'affare migliore. Apparentemente è una guerra di tutti contro tutti, in realtà prevale una sorta di cartello, le società «collaborano» e si spartiscono le risorse idriche del Paese.

Dodici gruppi dominano la scena del mercato dell'acqua in Italia, veri e propri colossi finanziari, quotati in Borsa, alimentati da miliardi di metri cubi d'acqua. Società che sfuggono al controllo democratico dei cittadini, che continuano a eleggere gli amministratori locali ma non hanno alcun potere diretto sui consigli d'amministrazione delle nuove aziende che offrono servizi essenziali che vanno dall'acqua all'energia, dai trasporti ai cimiteri. Aziende sempre più imponenti e con un grande potere anche sulla politica. In questo libro troverete il filo d'oro che lega acqua e denaro. Scoprirete chi va conquistando i nostri acquedotti, quanto ci è costato finora e quanto ancora dovremo sborsare per garantire i profitti dei signori dell'oro blu.

Insieme viaggeremo tra dighe incompiute, servizi idrici inefficienti o inaccessibili, come accade ad Agrigento o a Caltanissetta. Sullo sfondo c'è sempre il cartello dell'oro blu, un pugno di imprese che vorrebbe mettere le mani sulle risorse idriche del pianeta. Sveleremo i disegni di chi sta tentando di venderci l'idea che la sete nel mondo si può combattere grazie all'apporto delle multinazionali. Scopriremo i progetti che maturano nel Forum mondiale dell'acqua, dove ogni tre anni governanti e rappresentanti dei signori dell'acqua mettono a punto le loro strategie finanziarie, mentre 30.000 uomini, donne e bambini ogni giorno muoiono a causa della mancanza di acqua potabile e di servizi igienici. Uno scenario di sete e di morte che coinvolge 2 miliardi e 400.000 persone: sono i poveri del mondo che vivono nelle sterminate bidonville, dove non ci sono rubinetti né fontanelle e le fognature scorrono a cielo aperto.

Di fronte all'emergenza idrica che colpisce il pianeta, l'unica risposta possibile non può essere affidare gli acquedotti alle compagnie private. Ma quali soluzioni possono darsi alla grande sete senza dover essere costretti ad affidarsi agli strumenti del mercato e alla conseguente logica del profitto? La storia che raccontiamo dimostra che delle alternative esistono. All'inizio del Novecento, dopo l'ondata di privatizzazioni avvenuta nel XIX secolo, Gran Bretagna e Italia sottrassero gli acquedotti alle aziende private per restituirli ai comuni, dopo decenni di bollette esose che escludevano larghe fasce della popolazione ed epidemie causate dalla cattiva manutenzione. Oggi, dopo le vivaci proteste che qui raccontiamo per la prima volta, l'Italia sembra essere in mezzo al guado, stretta fra le multinazionali che premono per la liberalizzazione e un possibile quanto ambiguo ritorno alla gestione comunale. Mentre l'acqua del rubinetto diventa sempre più salata...


Cap. 6 - Acqua minerale: c'è del torbido in quella bottiglia

Questa è la vera storia della corsa all'oro blu, l'elemento naturale alla base della vita capace di generare un giro d'affari mondiale di 80 miliardi di dollari e solo in Italia di circa 3 miliardi di dollari. Gli acquedotti questa volta non c'entrano. Stiamo parlando dell'acqua imbottigliata. Acqua e denaro: un binomio inscindibile, che trova la sintesi perfetta in un contenitore di Pet, come dimostra questa storia.
Siamo al confine tra Abruzzo e Marche, un angolo di terra stretto tra la montagna e il mare. Zona depressa, tanto da essere stata inserita tra le aree tutelate della Cassa per il Mezzogiorno. Geograficamente non è Sud, ma l'economia agropastorale e il dialetto non fanno pensare a una regione del Centro con distretti industriali all'avanguardia. Unica vera ricchezza, da sempre, è l'acqua. Siamo nel regno della Sibilla e qui è scoppiata una strana guerra dell'acqua, con sindaci e altri amministratori locali che si contendono una ricchezza conosciuta fin dall'antichità. Nell'antro misterioso della montagna nascono generose sorgenti che alimentano fiumi impetuosi che convergono nella valle del Tronto. Acque cristalline e di grande qualità, che fanno gola a molti. E in tempi di bollicine, particelle di sodio parlanti, miracolose acque «zero calorie» che fanno plin plin, a qualcuno non è sfuggita l'idea di poter imbottigliare ciò che Madre Natura fornisce gratuitamente per piazzarlo nei supermercati con una bella etichetta, «Monti azzurri», e magari uno spot animato da Pippo Baudo. Ad annusare l'affare però questa volta non è la solita multinazionale di turno, ma il Ciip S.p.A., ossia il vecchio Consorzio idrico intercomunale (il gestore dell'acquedotto) diventato nel frattempo una società di capitali, i cui azionisti non sono Paperon de' Paperoni, ma i comuni della provincia di Ascoli Piceno.

La fabbrica dell'acqua per catturare quella ricchezza, con tanto di finanziamento pubblico (2 milioni di euro), con la relativa concessione a sfruttare una fonte dei Sibillini, sembrava quasi fatta. Tanto che ad Arquata del Tronto, i 1500 residenti dispersi in tredici frazioni addossate alle falde del Monte Vettore, erano pronti a festeggiare. Una ventina di posti di lavoro, venti famiglie mantenute grazie alla vendita dell'acqua imbottigliata in un moderno stabilimento: una bella speranza di benessere. «A gelare le aspettative degli abitanti è stato il presidente della Provincia di Ascoli Piceno» racconta Guido Castelli, consigliere regionale di Alleanza nazionale nel 2005. «La Conferenza dei servizi del 9 settembre 2004 aveva dato il via libera, si potevano incominciare i lavori, ma a questo punto è iniziata la battaglia tra Orazi e Curiazi sui giornali locali, tra favorevoli e contrari.» Massimo Rossi, avvocato, presidente della Provincia, da pochi mesi eletto nelle liste di Rifondazione comunista, esponente del Contratto mondiale dell'acqua, lancia un interessante dibattito: «È giusto imbottigliare e commercializzare l'acqua, un bene comune? E ancora, è giusto avviare il progetto prima di aver avuto una valutazione tecnica dell'Autorità di bacino, quando lo stesso Ciip ha ammesso che ci possono essere problemi in caso di emergenza idrica?». Infatti, dai rubinetti degli abitanti di Ascoli Piceno sgorga la stessa acqua che finirebbe in bottiglia e, in caso di siccità, potrebbero esserci problemi di approvvigionamento.

La «guerra» va avanti per mesi, alimentata dalle colorite apparizioni di Aleandro Petrucci, 59 anni, sanguigno sindaco di Arquata del Tronto, che vuole a ogni costo quella fabbrica, vista come una gallina dalle uova d'oro. Grandi baffi, corporatura robusta, mani incallite, Petrucci parla in un italiano infarcito di dialetto improvvisando pittoreschi comizi. Durante un Consiglio provinciale aperto arriva perfino a incatenarsi: chiede il rispetto dei tempi, in modo da non perdere i finanziamenti, e minaccia di assediare il palazzo del presidente «con pecore e ciucci». La Provincia intanto sospende tutte le autorizzazioni richieste per lo sfruttamento delle acque. Scende in campo pure il sindacato, ma diviso: da una parte la Cisl, favorevole alla fabbrica dell'acqua, dall'altra la Cgil, contraria. La controversia coinvolge anche le associazioni ambientaliste, e perfino il Cai (Club alpino italiano), che difende sorgenti e laghetti di montagna. «Tentativi di accaparrarsi l'acqua dei Monti Sibillini ce ne sono stati anche nel passato» racconta Luciano Carosi, ex direttore tecnico del Consorzio idrico del Piceno. «Perfino Giuseppe Ciarrapico [noto imprenditore del settore], nel 1988, ci aveva provato.» Ma in fondo che male c'è a imbottigliare l'acqua di una piccola sorgente (circa 10 litri/secondo)? Perché gli abitanti di un paesino arroccato sui Monti Sibillini si scaldano così tanto e un presidente della Provincia fa di tutto per impedire il commercio di quell'acqua che da sempre scorre nelle forre dell'Appennino marchigiano?

«È vero che la sorgente si perde nel Tronto, ma se si apre questa breccia molte altre società sono pronte a prendersi la nostra acqua» dice William Scalabroni, presidente del Cai di Ascoli Piceno. «Ci sarebbe già un'altra impresa che ha avanzato pretese sulla fonte Gelata.» Acqua di tutti che, grazie a Acqua minerale: c'è del torbido in quella bottiglia un'etichetta, diventa un prodotto, una bibita come tante capace di generare un sostanzioso profitto. Ma quanto ci guadagna invece la pubblica amministrazione? Poco, molto poco.
Le attuali sei concessioni di acque minerali e termali in tutta la provincia coprono un'estensione di 233,23 ettari. Esse fruttano all'erario appena 7609,16 euro all'anno. «Una somma che non basta nemmeno a coprire le spese del personale addetto ai controlli» dicono in Provincia. L'acqua «Monti azzurri » non esiste ancora e non si sa se e quando apparirà sullo scaffale del supermercato; mentre la storia prosegue tra duelli politici e sogni a dir poco effervescenti.
Nell'età dell'oro blu, nell'Italia del primato europeo del consumo di acqua minerale (185 litri a testa all'anno), sembra una storia di ordinaria follia contemporanea. In un Paese che vanta un discreto patrimonio idrico, circa 47 miliardi di metri cubi (quasi il volume del lago di Garda), e una qualità al rubinetto da far invidia a tante acque imbottigliate, il grande successo dell'acqua minerale appare strano. Ma ci sono parecchi motivi che hanno favorito lo sviluppo di questo settore industriale.

Un passerotto irriverente

Spostiamoci al di là dei Sibillini, in provincia di Perugia, precisamente a Gualdo Tadino, patria della Rocchetta, resa famosa da un passerotto irriverente e dal calciatore Alessandro Del Piero. Qui si combatte da anni un'altra «guerra» ma questa volta sono gli abitanti che non vogliono l'ampliamento della fabbrica dell'acqua. Cittadini organizzati nel Comitato Rio Fergia nato all'inizio degli anni Novanta, quando la Regione ha deliberato di aumentare i prelievi alle sorgenti del Rio Fergia nella zona di Boschetto per alimentare gli acquedotti della Valle Umbra Sud. Per due anni, il Comitato ha occupato la sorgente. Una battaglia tenace premiata con la firma di un protocollo d'intesa, il 10 febbraio 1993, tra la Regione Umbria, i comuni di Gualdo Tadino e Nocera Umbra e il Comitato in rappresentanza della popolazione.
Passato qualche anno, la guerra dell'acqua si riaccende, questa volta contro la Rocchetta che ha richiesto alla Provincia di Perugia la concessione di 20 litri al secondo per dissetare un mercato in crescita. Ma ecco che l'Arpa (Agenzia regionale protezione ambientale) ipotizza che il permesso di ricerca avviato dalla società Rocchetta ricada nel bacino di alimentazione della sorgente Boschetto e possa interferire, nei mesi tardo estivi, ovvero durante le minime portate annuali, sui deflussi del Rio Fergia. Il Comitato insorge, organizza assemblee pubbliche, raccoglie prove sulla volontà della Rocchetta di accaparrarsi a ogni costo l'acqua della zona costringendo il comune di Gualdo Tadino a rinunciare addirittura ai suoi 8 litri al secondo previsti dal protocollo del '93.

La disputa si colora anche di politica con la discesa in campo di leader nazionali. Ma non è l'unica guerra dell'acqua che si combatte in Italia. Ne citiamo ancora un'altra, ma l'elenco potrebbe essere molto più lungo: piccoli e grandi contenziosi sono presenti un po' ovunque, mentre aumenta la richiesta di permessi di ricerca di nuove fonti o si progetta l'ampliamento di qualche stabilimento per far fronte alle necessità di un mercato in costante crescita.

Una rondine che annuncia la battaglia

A Padernello, località del comune di Paese, in provincia di Treviso, in un'area Sic (Sito di interesse comunitario), su una superficie di 39 ettari, la San Benedetto vorrebbe costruire un nuovo stabilimento con 2.750.000 metri cubi di fabbricati. Dovrebbe prelevare 7 milioni di litri al giorno dagli acquiferi che alimentano il fiume Sile. Ma il progetto ha suscitato la protesta della popolazione, delle associazioni ambientaliste e una interrogazione parlamentare proprio per la vicinanza dello stabilimento all'area protetta. Il 19 gennaio 2005, l'onorevole Luana Zanella ha presentato una dura interrogazione al ministro della Salute. L'atto parlamentare è un piccolo trattato sui problemi e sui conflitti che si creano con lo sfruttamento intensivo delle fonti a fini commerciali.
Il via al progetto era stato dato il 6 agosto 2004, quando la Giunta regionale del Veneto ha approvato la delibera n. 2508 avente per oggetto: «Ditta: S. Benedetto S.p.A., rilascio della concessione di acqua minerale da denominare "Fonte della rondine" in comune di Paese (Treviso) - legge regionale 40/1989». Così la Regione dà il benestare per l'estrazione di acqua nel sito di Padernello. Si legge nell'interrogazione: «La carta idrogeologica della provincia di Treviso considera la zona del sito oggetto di concessione da parte della Regione Veneto come "zona a vulnerabilità elevata", essendo un'area di ricarica degli acquiferi, dove il sottosuolo è costituito prevalentemente da materiali ghiaiosi che si prestano a una facile veicolazione di eventuali elementi inquinanti sia per quanto riguarda la fase satura che quella insatura».
Il 12 gennaio 2004, l'Area tecnico scientifica «Osservatorio acque interne» dell'Arpa del Veneto ha stilato una relazione, firmata dal geologo Filippo Mion. Dalle indagini idrogeologiche e chimiche effettuate su campioni di acqua prelevati nei pozzi sul sito del nuovo insediamento risultano concentrazioni di ferro disciolto, manganese e arsenico superiori al limite di legge. L'Arpa sottolinea che il superamento di tale limite «può presentare un rischio per la salute pubblica». E ancora: è stata riscontrata la presenza dell'inquinante 3-secbutil- 6-metiluracile con 0,45 microgrammi/litro. La relazione dell'Arpa, citata più volte nell'interrogazione parlamentare, si preoccupa anche della «compromissione quantitativa » dell'acqua che alimenta le risorgive un po' più a valle e afferma che si tratta di un'area «idrogeologicamente critica, in cui qualsiasi fattore esterno potrebbe stravolgere i delicatissimi equilibri esistenti»; inoltre sconsiglia di «imbottigliare acque sotterranee con le caratteristiche chimico-fisiche come quelle accertate per il fatto che alcuni parametri sono superiori ai limiti imposti dalla normativa vigente in materia di inquinamento delle acque e delle acque per il consumo umano».

Oltre tutto la Provincia di Treviso aveva accertato la presenza del microinquinante organico denominato 3-secbutil- 6-metiluracile nelle acque di falda dei comuni di Quinto e Paese, utilizzate anche a scopo potabile. Un inquinamento della falda freatica rilevato nell'estate del 2000 e nel febbraio 2001, quando apparve pure il desetilatrozino, al punto che i sindaci dei due comuni dovettero emettere il divieto d'uso a scopo potabile di tutti i pozzi pescanti a una profondità minore di 50 metri. Sembra che il composto inquinante in parola sia un prodotto di degradazione del principio attivo bromocile, commercializzato per il diserbo di aree incolte e probabilmente smaltito nella discarica ex cava Tiretto che si trova in prossimità del sito della San Benedetto. A conclusione della lunga interrogazione parlamentare, si chiede di negare il rilascio del riconoscimento dell'acqua minerale naturale prelevata dal sito di Padernello di Paese.

Il 18 marzo del 2004, era toccato a un gruppo di attivisti del Venezia Social Forum lanciare l'allarme con una manifestazione all'interno della Fiera di Padova contro lo sfruttamento idrico da parte di aziende private, in particolare la San Benedetto di Scorzè (Venezia), esibendo striscioni con la scritta: «Stop ai vampiri della nostra acqua».
Gli ambientalisti manifestavano per il timore che la Regione Veneto potesse autorizzare la San Benedetto al prelievo di acque da destinare al nuovo stabilimento nel Trevigiano. «Siamo fortemente contrari a questo progetto» ha spiegato per il Social Forum Michela Vitturi «perché con questo stabilimento saranno causati danni irreparabili all'intero e prezioso ecosistema delle risorgive della zona.» Secondo gli ambientalisti, lo stabilimento trevigiano porterà a un forte aumento del traffico sulla statale Postioma, stimato in duecento Tir al giorno.
Quell'acqua che sgorga pura dagli anfratti calcarei dei Sibillini o che emerge dalle profondità sabbiose della pianura padana fa parte dei cosiddetti beni comuni, anzi è una risorsa del demanio. Un'acqua che se zampilla dai rubinetti costa meno di un euro al metro cubo (1000 litri!), e quando finisce in una bottiglia di Pet diventa «oro» arrivando a costare oltre 300 euro al metro cubo. Pensate che stia esagerando? Bene, proviamo a fare un po' di conti semplici semplici.

Quelle concessioni a buon mercato

Nella primavera del 2004, la Corte dei Conti del Piemonte ha finalmente squarciato il velo sul «mistero» delle concessioni minerarie per l'estrazione del prezioso oro blu. Le ottanta pagine del dossier dovrebbero far riflettere molti amministratori pubblici alle prese con i tagli ai bilanci: sono le Province a incassare i magri canoni di concessione delle fonti. La Provincia di Cuneo, per esempio, è particolarmente ricca di sorgenti, alcune delle quali sono sfruttate da multinazionali come la Nestlé. Qualche caso: per la concessione Ulmeta, accordata alla San Bernardo (durata vent'anni), estesa su un'area di 67 ettari, la Nestlé versa nelle casse della Provincia di Cuneo meno del canone d'affitto di un box nel centro di Alba: 2528,28 euro all'anno. Ancora meno si paga per la concessione Rocca degli Uccelli: 304,28 euro. E prezzi stracciati per i permessi di ricerca. Nel 1999 è stato accordato un permesso alla San Pellegrino (Nestlé) su un'area di 142 ettari nella zona di Mindino per 110 euro l'anno, il costo di un paio di scarpe.
La Corte dei Conti lamenta la mancata collaborazione di molte Province nel fornire i dati, con la sola eccezione di quella di Biella, che ha fatto piena luce sui costi sostenuti per gestire contabilità e controlli. La sola attività di vigilanza su tre concessioni e due permessi di ricerca è costata all'amministrazione provinciale un totale di 17.642 euro annui, contro gli 8625 euro introitati come canoni di concessione e di ricerca. Basta pensare che l'attività di polizia mineraria, svolta da un geologo e un ingegnere minerario, costa 12.889 euro l'anno. Difficile riscontrare simili comportamenti generosi della pubblica amministrazione in tanti servizi di prima necessità destinati ai cittadini: la retta di un asilo nido a Milano può costare molto di più di un permesso di ricerca. Qualcosa non quadra, evidentemente. Alle multinazionali, per esempio, è richiesto un diritto di ricerca che rasenta il ridicolo: 2,32 euro a ettaro. Per la concessione vera e propria, si pagano 20,65 euro a ettaro, ma se si tratta di acque termali si applica il forfait: 774,68 euro. E non finisce qui. Nel 2001, la Regione Piemonte ha approvato la graduatoria per la concessione di contributi alle aziende di acque minerali e termali per un impegno di spesa di lire 9.407.216.776 da rimborsare in cinque anni e senza interessi; contributi, si legge nella relazione, «a favore di interventi per lo sviluppo dell'offerta turistica». Insomma, al danno si aggiunge la beffa, nonostante una vecchia legge del 1927 preveda la partecipazione dello Stato agli utili delle aziende che imbottigliano. Ma qualcosa sta cambiando, dopo che la Lombardia ha introdotto nel 2002 delle royalty per ogni litro imbottigliato, a seguito di una lunga battaglia legale giunta fino in Corte costituzionale. Laddove operano la San Pellegrino (controllata dal gruppo Nestlé) e numerose altre aziende, la Regione Lombardia incassava, fino al 2002, poco più di 75.000 euro all'anno dai canoni di concessione.

Anche la Regione Veneto, con la Finanziaria del 2003, ha introdotto un criterio simile. Mentre il Piemonte, dopo la relazione della Corte dei Conti, ha deciso finalmente di voltare pagina. Il dibattito sulla tassa di concessione è durato mesi tra il 2005 e l'inizio del 2006. Un braccio di ferro tra forze politiche e Mineracqua (l'organizzazione di categoria aderente a Confindustria) che alla fine ha portato a una tassa di 0,70 euro al metro cubo (vale a dire ogni mille litri imbottigliati) se si utilizzano bottiglie di plastica e 0,35 euro per le bottiglie di vetro. All'inizio si era parlato anche di 5 euro al metro cubo, poi di 2; alla fine la Regione ha deciso di portare il canone a un livello che è comunque superiore rispetto ad altre regioni italiane. In Lombardia, per esempio, si pagano 51 centesimi di euro al metro cubo, in Veneto 65, in Umbria 50, in Basilicata 30, in Liguria e in tante altre regioni nulla. La Regione Piemonte incasserà circa 5 milioni di euro invece dei 122.000 circa percepiti fino al 2005. Nonostante le Regioni pretendano sempre di più come tassa di concessione, i produttori pagano ancora l'acqua meno di un centesimo di euro al litro, mentre la Lombardia, per esempio, per smaltire le bottiglie di plastica spende 20-25 milioni di euro all'anno.
Continuando con i numeri, è utile fare un confronto con i costi della confezione. Secondo un calcolo di Legambiente, la colla usata per attaccare l'etichetta costa di più del contenuto. Vediamo per curiosità quanto incide il resto. La bottiglia di plastica (chiamata «preforma») può costare 5 centesimi di euro; il tappo meno di un centesimo così come l'etichetta.
Si potrebbe obiettare: quell'acqua «pura e cristallina» arriva però sulle nostre tavole, anzi nei supermercati, sempre pura e incontaminata come se fosse appena sgorgata dalla fonte: è un servizio/lusso che si deve pur pagare. Nel corso di questo capitolo vedremo invece che la vera forza di questo prodotto così «trendy» deriva da un immaginario collettivo che il marketing e la pubblicità sono riusciti a intercettare con grande successo.

Ma non è «acqua potabile»

Pochi sanno che la normativa relativa all'acqua minerale è diversa da quella che regola l'acqua potabile. Per cui, formalmente, la minerale non può essere definita «acqua potabile». Può sembrare un paradosso, ma è così. Ovviamente questo non significa che ciò che è contenuto in una bottiglia non è «buono da bere». Semplicemente, la maggioranza delle acque minerali in commercio hanno parametri che non rispecchiano quelli relativi all'acqua potabile. Un esempio: in Piemonte imbottigliano un'acqua con un residuo fisso (la quantità di sali minerali contenuta in un litro) di circa 20 milligrammi/litro. Bene, nessun acquedotto distribuisce un'acqua così povera di sali perché ritenuta «poco potabile». Raramente un acquedotto fornisce un'acqua con un residuo fisso al di sotto di 100 milligrammi/litro. Ma i venditori di minerale riescono invece a trasformare un difetto in un pregio. È una delle particolarità che contraddistinguono un settore per molti anni nelle mani di imprenditori che hanno saputo approfittare scientemente di una normativa nazionale che è, diciamo, benevola con i produttori e spesso incurante degli interessi dei consumatori.
Numerose acque minerali, grazie alla particolare legislazione di cui hanno goduto per anni, possono contenere sostanze potenzialmente pericolose per la salute ed elementi salini in concentrazioni così elevate che, se sottoposte alle analisi di laboratorio come l'acqua di rubinetto, il responso potrebbe essere: «acqua non potabile» oppure, più precisamente, «acqua non destinata al consumo umano». A questo tema ho dedicato un intero libro nel 2003, dal titolo Qualcuno vuol darcela a bere, spiegando nel dettaglio perché esistono due normative così diverse anche se si tratta pur sempre di acqua che consumiamo tutti i giorni.
Come si spiega questa apparente contraddizione che non è sfuggita al ministero dell'Industria? Spulciando la Guida alle acque minerali naturali si legge a un certo punto: «Prima di consumare un'acqua minerale consultate il vostro medico». La ragione di questa avvertenza è semplice: essendo in origine un prodotto «terapeutico» che si vendeva in farmacia, l'acqua minerale potrebbe avere indicazioni e controindicazioni. Un esempio: esiste un'acqua minerale frizzante molto popolare che ha un residuo fisso vicino a 1500 milligrammi/litro, ossia oltre un grammo di sali per litro. Qualunque medico sconsiglierebbe un consumo costante di questa acqua, perché a lungo termine può provocare qualche problema alla salute; andrebbe alternata con una più leggera. Eppure, nonostante l'acqua minerale sia ormai bevuta in alternativa all'acqua di rubinetto, continuano a persistere delle differenze nelle rispettive normative. Perfino l'ultimo aggiornamento della legislazione relativa all'acqua destinata al consumo umano (decreto legislativo del 2 febbraio 2001, n. 31), con nuovi rigorosi limiti per le sostanze tossiche, esclude dalla sua applicazione, guarda caso, l'acqua minerale. Tanto che, se quest'ultima dovesse sottostare ai parametri previsti per l'acqua potabile, molti marchi in commercio probabilmente dovrebbero essere ritirati. E questo perché il legislatore ha considerato le acque minerali ben altra cosa rispetto all'acqua potabile: cioè acque medicinali «dotate di particolari virtù terapeutiche» come si può leggere alla voce «acqua» del Dizionario della lingua italiana di G. Devoto e G.C. Oli.

Una lobby molto protetta

Insomma, nel disciplinare il settore delle acque minerali naturali, lo Stato italiano ha avuto un occhio di riguardo oppure non è stato puntuale nel recepire le direttive europee. Perché? Possiamo immaginare che il peso economico e le esigenze di business possano aver avuto un certo influsso. Intendiamoci, nessuno ha infranto la legge. C'è stata piuttosto un'azione di lobbying che ha permesso alle aziende di ottenere una normativa come se fosse un vestito su misura.
Ad accorgersi dell'incredibile disparità di trattamento della legge per un prodotto ormai di uso quotidiano e a denunciarne i possibili effetti sulla salute è stato un personaggio che merita un po' di attenzione.
Tutto è partito da Rionero in Vulture, provincia di Potenza. Il Vulture altro non è che un vulcano spento da oltre 150.000 anni. L'acqua piovana che attraversa le antiche lave si carica di molti elementi naturali, alcuni dei quali possono rendere l'acqua particolarmente ricca di arsenico. Attorno alla vecchia caldera, tra i fitti castagneti, l'acqua riaffiora dalle viscere del vulcano assumendo caratteristiche particolari. Ci sono fonti sulfuree, ferruginose e perfino leggermente frizzanti. Pasquale Merlino, robusto cinquantenne, è stato da sempre attratto dal mistero di queste sorgenti, tanto che è in grado di distinguere il rarefatto sapore di ciascuna fonte. Una passione che lo ha portato a studiare chimica. Un po' per questo suo legame misterioso con l'acqua, un po' per il suo carattere ribelle, Merlino non riusciva a darsi pace a causa della presenza di due stabilimenti che imbottigliano l'acqua del vulcano, la stessa che da bambino poteva bere senza dover andare al supermercato. Essendo perito chimico, si è dotato di un piccolo laboratorio di analisi che, per la verità, somiglia alla segreta stanza di un mago alle prese con qualche alchimia. In ogni modo, il nostro Merlino (che, cognome a parte, mago non è) ama ricercare ioni, molecole e tracce infinitesime di sostanze che abbondano nella trasparenza dell'acqua. E fu così che cominciò a rendersi conto che qualche acqua minerale era meglio non berla oppure la si poteva tutt'al più sorseggiare, con parsimonia, come se fosse una medicina, e non mandare giù a sorsate generose come suggeriscono gli spot che abbondano sulle reti televisive. Una situazione intollerabile per quest'uomo sanguigno, appassionato cultore della memoria del celebre brigante postunitario Carmine Crocco. Ad alimentare il suo ribellismo e il suo risentimento verso quelli che imbottigliavano l'acqua fornita da Madre Natura guadagnando miliardi di lire era stata la scoperta che la legge permetteva di mettere in commercio perfino l'acqua «non potabile». Merlino voleva a ogni costo che qualcuno prendesse dei provvedimenti a tutela della salute pubblica. Si era rivolto al sindaco e non aveva ottenuto nulla. Si era perfino spinto fino a Potenza dal prefetto per informarlo che occorreva intervenire e subito. Niente da fare. Anche il prefetto si era trincerato dietro la legge. A questo punto non rimaneva che appellarsi all'Unione europea. Prese carta e penna e scrisse la sua denuncia.
Era il 2 luglio 1999 e quando Merlino finì di scrivere la sua lettera alla Commissione europea, non poteva certo immaginare il terremoto che avrebbero causato le scarne cifre gettate su quel foglio bianco. Numeri strani con tanti zeri e virgole. Merlino segnalava che qualcosa non quadrava: diciannove sostanze tossiche potevano essere presenti nella minerale in misura superiore rispetto ai limiti previsti per l'acqua di rubinetto.

L'Europa richiama l'Italia

La Commissione europea ha ascoltato l'allarme lanciato da Merlino e ha avviato una procedura d'infrazione nei confronti dell'Italia (1999/4849 ex articolo 226 Trattato: sfruttamento e commercializzazione delle acque minerali naturali).
Bruxelles ha contestato il decreto emanato dall'Italia nel 1992 che disciplina le acque minerali. In sostanza, il governo italiano doveva chiarire perché aveva fissato limiti per le sostanze tossiche largamente superiori a quelli ammessi per l'acqua di rubinetto. Un richiamo forte ed esplicito scritto nero su bianco in una lettera inviata al nostro ministero degli Esteri in cui si legge che «le norme in materia di acque minerali naturali perseguono l'obiettivo prioritario di proteggere la salute del consumatore».

In effetti, lo stesso ministero della Sanità italiano sapeva bene che la sicurezza dell'acqua poteva essere minacciata, altrimenti perché alle sollecitazioni di Bruxelles rispondeva in modo interlocutorio? «Approfondimenti di carattere tecnico- scientifico degli ultimi anni hanno fatto emergere l'opportunità di ridurre le concentrazioni massime ammissibili per alcuni elementi quali l'arsenico, il cadmio, il piombo, il bario e il cromo.» Il ministero non dice però che quegli approfondimenti erano già disponibili prima del 1988, anno del varo di un decreto che disciplina l'acqua potabile.
Incalzato dalla Commissione europea, il ministero della Sanità ha inviato, nell'ottobre 2000, uno schema di modifica del decreto del 1992, fissando limiti più severi per le diciannove sostanze tossiche o indesiderabili, in linea con quanto previsto per l'acqua potabile dal vecchio decreto del 1988. Sì, perché nel frattempo è stato emanato un nuovo decreto legislativo, che ha abbassato ulteriormente i valori per l'acqua potabile. Per esempio, il valore dell'arsenico è passato da 50 a 10 microgrammi/litro, come raccomandato da anni dall'Organizzazione mondiale della sanità per evitare il rischio di ammalarsi di un particolare tipo di tumore.
Le contestazioni mosse al governo italiano dal commissario David Byrne, il 3 agosto 2000 (numero di protocollo 105.852), sono pesanti: «La legislazione italiana autorizza la presenza nell'acqua minerale naturale di sostanze inquinanti o contaminanti delle quali non dovrebbe essere rilevata alcuna traccia in questo tipo di acqua». Un argomento non nuovo, trapelato qua e là in qualche sporadico trafiletto di giornale subito rintuzzato da paginate di pubblicità dei produttori di minerale. Tanto che nel Parlamento nazionale e anche in seno allo stesso governo italiano erano state mosse forti critiche verso la normativa che disciplina le acque minerali e i possibili rischi per la salute.
La reazione di Mineracqua alla procedura d'infrazione e alle notizie affiorate sulla stampa è a dir poco sorprendente. Invia un comunicato alle imprese associate dove si legge: «In relazione alle notizie stampa che riportano un comunicato dell'Unione nazionale consumatori, in attesa degli accertamenti che abbiamo immediatamente avviato a livello di Unione europea, Vi invito, nel caso in cui foste direttamente interpellati da giornali o televisioni, a non rilasciare dichiarazioni ma di rinviare alla Vostra Associazione per qualsiasi commento». Gli interessi in campo sono ingenti e un'informazione critica può creare gravi danni al florido settore economico che fino a quel momento era stato lasciato libero di espandersi e di crescere senza troppi vincoli.

Il tentativo di controllare l'informazione

Alberico Giostra e Oliviero Beha dedicano alla spinosa querelle la puntata del 20 novembre 2000 della trasmissione radiofonica «Radio a colori», con un'intervista al perito chimico Merlino e a Fernando Maurizi, presidente dell'Ordine dei chimici di Lazio, Umbria e Molise nonché consulente di diverse fonti di acque minerali. Quest'ultimo afferma: «L'acqua minerale è un'acqua medicinale, è un'acqua curativa, è un'acqua che va bevuta cum grano salis, perché ha delle caratteristiche peculiari notevoli». Non era mai successo che la Rai parlasse esplicitamente delle acque minerali al di fuori degli spazi «addomesticati» della pubblicità. La furiosa reazione di Mineracqua è il segnale che il limite era stato superato. Il 29 novembre l'organizzazione confindustriale invia una raccomandata al direttore generale della Rai lamentandosi della qualità delle informazioni fornite da «Radio a colori ». Invia anche una lettera all'amministratore delegato della Sipra S.p.A. (la società concessionaria di pubblicità della Rai e di numerose testate giornalistiche), in cui si legge: «Come potrà comprendere, il tono generale della trasmissione, in particolare talune affermazioni false e diffamatorie nei confronti del settore industriale che rappresento, contrastano con lo sforzo finanziario sostenuto dalle imprese in comunicazione e pubblicità sulle reti Rai. Non mancheremo, da parte nostra, di fare le opportune riflessioni sull'entità degli investimenti pubblicitari affidati alla Sipra, il cui ritorno è gravemente pregiudicato da una trasmissione della Rai priva di un controllo di qualità sui contenuti e sugli interlocutori ». Il ricatto adombrato da Mineracqua è un'arma che è stata più volte utilizzata nei confronti della stampa che avesse osato mettere il naso tra bollicine, etichette con vette innevate e ruscelli incontaminati. I programmi televisivi generalmente sono «controllati» dai produttori che riversano sulle reti milioni di euro in pubblicità (nel 2002, secondo Nielsen, circa 300 milioni di euro, ma nel 2003 questa quota è stata incrementata del 29,5 per cento). Ma le notizie apparse qua e là non potevano essere tutte sottoposte a un rigido controllo da parte dell'apparato pubblicitario. Ormai l'affaire acqua minerale era approdato in Parlamento con interrogazioni molto dure che chiedevano conto al ministro della Sanità di quanto stava accadendo tra Bruxelles e Roma. Insomma, per i produttori di acqua minerale era troppo tardi.

Norme più severe a tutela dei consumatori

Così, dopo l'intervento dell'Unione europea, l'Italia, con il decreto ministeriale del 31 maggio 2001, ha abbassato per le acque minerali i limiti per alcuni parametri: arsenico totale (da 200 a 50 microgrammi/litro), cadmio (da 10 a 3 microgrammi/ litro), piombo (da 50 a 10 microgrammi/litro), boro (da 5,25 a 5,0 milligrammi/litro), nitriti (da 0,03 a 0,02 milligrammi/litro), bario (da 10 a un milligrammo/litro). Per i microinquinanti organici (fenoli, tensioattivi, oli minerali, idrocarburi disciolti o emulsionati, idrocarburi aromatici policiclici, pesticidi e bifenili policlorurati, composti organoalogenati), il decreto dice: «assente al limite di rilevabilità del metodo analitico», secondo quanto previsto dagli Standard Methods for the Examination of Water and Wastewater («Metodi standard per l'analisi delle acque e dei reflui»), 20a edizione, 2000.
L'Italia, per cercare di bloccare la procedura di infrazione dell'Unione europea, aveva provveduto a inviare a Bruxelles una proposta di modifica, con qualche deroga. Una di queste riguarda il bario, sostanza tossica ad alte concentrazioni. Si legge in una lettera del ministero della Sanità, Dipartimento della prevenzione, del 3 ottobre 2000, in relazione alla procedura d'infrazione aperta dall'Ue nei confronti dell'Italia: «Al fine di consentire alle aziende interessate di ricercare eventualmente una diversa captazione dell'acqua minerale e, ove ciò non fosse possibile, evitare un impatto negativo immediato sull'occupazione per la chiusura delle aziende, potrebbe essere inserita nel decreto relativo al nuovo articolo 6 la precisazione che: per le acque già riconosciute, limitatamente al parametro bario, l'entrata in vigore del presente decreto è differita di mesi sei». La preoccupazione principale del ministero della Sanità è la tutela dei posti di lavoro, un po' meno la salute.

Gli imbottigliatori finiscono nei guai

È interessante notare un fatto importante, a proposito di sicurezza alimentare. Il nuovo decreto finisce per mettere nei guai molte aziende, perché non erano e non sono in grado di assicurare la totale assenza di microinquinanti organici. L'inquinamento è così diffuso che tracce di fenoli o idrocarburi sono presenti ovunque, perfino nei ghiacci del Polo Nord. Ma per un prodotto che vanta la sua purezza a suon di superlativi è un bel problema. Dopo il maggio 2001 e fino alla fine del 2003, si è andati avanti giocando a rimpiattino, con il ministero della Salute costretto a chiedere i certificati con le analisi conformi al volere dell'Unione europea, e le aziende che temporeggiavano o inviavano analisi parziali oppure ottenute con metodi non contemplati dalla legge. Alla fine oltre duecento marche su duecentosessanta sono risultate fuori norma. Fenoli, idrocarburi e altre sostanze simili si possono trovare nelle acque minerali anche se in concentrazione tale da non generare preoccupazioni eccessive per la salute dei consumatori, ma la presenza di quei composti chimici rivela che una qualche forma di contaminazione esiste. Che cosa ci si poteva aspettare a questo punto? Poteva il ministero della Salute diffondere una lista nera e mettere in ginocchio un intero e lucroso settore industriale? La risposta è ovvia. Di fronte a questa situazione a dir poco imbarazzante, il ministero della Salute ha colto al balzo l'opportunità offerta da una nuova Direttiva europea sull'acqua minerale (2003/40) recepita con un apposito decreto del 29 dicembre 2003, dove in una tabella allegata resuscita i microinquinanti organici, che sono ritornati a essere tollerati.

Il ministero salva l'acqua minerale

Una decisione che ha suscitato scalpore tra le associazioni di consumatori che hanno parlato di «decreto salva acqua minerale ». Il decreto del ministro Sirchia «ha introdotto una soglia di tolleranza per una serie di sostanze tossiche ad alto rischio grazie alla quale le grandi aziende produttrici di acque minerali possono continuare a immettere sul mercato prodotti irregolari, in danno dei consumatori e in contrasto con le normative europee». Così Loredana De Petris, senatrice dei Verdi e capogruppo in Commissione agricoltura e alimentazione, ha chiesto al ministro della Salute di revocare il decreto del 29 dicembre 2003 con il quale si stabilisce per tensioattivi, oli minerali, antiparassitari, policlorobifenili, idrocarburi e altre sostanze pericolose una soglia di rilevabilità strumentale al di sotto della quale le aziende produttrici potranno continuare a dichiarare che le acque minerali imbottigliate sono esenti da ogni inquinamento. «L'inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Torino» prosegue la senatrice «aveva accertato nel giugno scorso [2003] che ventitré delle ventotto marche di acque minerali analizzate non rispettavano l'obbligo di legge di essere completamente prive delle sostanze tossiche in questione; successivamente il numero delle marche non in regola è salito a ottantasei.» Per la senatrice De Petris, dunque, «invece di affrontare all'origine le cause dell'inquinamento, il ministro della Salute si è inventato, in piene festività natalizie, questo singolare espediente giuridico, che non ha alcun riscontro nella normativa comunitaria, grazie al quale le acque minerali inquinate diventano miracolosamente pure». Con questo decreto, secondo la senatrice, «si consente la presenza di composti nocivi in acque spesso pubblicizzate come benefiche per la salute».

E la minerale finisce in tribunale

Aproposito di rischi sanitari, nella tarda primavera del 2004, la Procura della Repubblica di Bari ha concluso le indagini sulla presunta non genuinità e pericolosità per la salute pubblica di alcuni lotti di acque minerali della zona del Vulture (Potenza). Secondo l'inchiesta, una certa acqua effervescente naturale è risultata non solo pericolosa per la salute pubblica, ma anche non genuina e in cattivo stato di conservazione per la presenza di valori di nitriti (0,07 mg/litro) superiori al limite (0,03 mg/litro) fissato dalla legge. In un altro campione di acqua minerale naturale, invece, prelevato in un supermercato del Barese nell'ottobre 2002, i valori di «vanadio e arsenico erano superiori al limite previsto per le acque destinate al consumo umano», inoltre erano stati riscontrati «valori difformi per rame, zinco e selenio, indicati come principali oligoelementi antiossidanti in grado di prevenire o curare patologie umane, così rendendo un prodotto destinato al consumo alimentare non genuino».
L'inchiesta di Bari era partita da una denuncia dell'Adusbef (associazione di consumatori) e di Pasquale Merlino. Ma questo processo è un caso piuttosto raro.
In Italia la potente lobby dei produttori di acqua minerale gode di privilegi e coperture che forse non ha eguali in altri Paesi. Comunque dei processi a carico dei produttori di bollicine raramente si parla sui giornali.

Quei rischi di cui nessuno parla

In un rapporto dedicato ai problemi dell'inquinamento, presentato il 12 febbraio 2004 all'allora primo ministro francese Jean-Pierre Raffarin, si afferma: «Lo sviluppo dell'offerta e il livello di consumo dell'acqua minerale fortemente mineralizzata, un tempo riservata a chi aveva bisogno di cure mediche, non sono oggetto di un'attenzione sanitaria sufficiente, soprattutto per i possibili effetti sui bambini». Impossibile ritrovare una simile attenzione su questo tema in Italia da parte delle pubbliche istituzioni. Il settore ha un peso economico enorme. Il fatturato, come abbiamo detto, sfiora i 3 miliardi di euro, più della metà del valore di tutto il mercato del ciclo idrico integrato in Italia che comprende l'acqua potabile, la manutenzione delle fognature e la depurazione. Probabilmente è per questo che sulla stampa non si trovano quasi mai notizie che possono mettere in pericolo il lucroso business. Il 3 ottobre 2003, un dispaccio dell'Ansa annunciava il sorprendente risultato di uno studio. Secondo un gruppo di ricercatori dell'Università del Galles di Cardiff, circa il 12 per cento delle infezioni da campylobacter, microbo responsabile di molti avvelenamenti, vengono contratte bevendo acqua in bottiglia. E ancora. Funghi e batteri sono stati trovati in 68 bottiglie di acqua minerale in commercio. Ne ha dato notizia il ricercatore olandese Rocus R. Klont, durante il meeting dell'American Society for Microbiology tenutosi a Washington nell'autunno del 2004. Aquanto sembra i campioni provenivano da nove Paesi europei e sette extraeuropei. Nel 1999 negli Stati Uniti, il Natural Resources Defense Council ha pubblicato le conclusioni di uno studio durato quattro anni sull'industria dell'acqua in bottiglia in America. Dalla ricerca è emerso che un quarto delle marche in commercio non rispetta i limiti sanitari imposti a questo prodotto dalla legislazione statunitense. Inoltre, in molti campioni sono stati riscontrati livelli inaccettabili di batteri coliformi, batteri Hpc, arsenico e trialometani. Si tratta di ricerche che raramente superano la barriera degli ambienti accademici in cui circolano, e quando qualche notizia trapela, la stampa e la televisione non ne parlano per il timore di ritorsioni da parte degli inserzionisti che inondano di paginate di pubblicità e spot gli aridi bilanci delle aziende editoriali. Una pressione che in Italia è più marcata che altrove a causa dell'importanza del settore nella nostra economia.

Un settore industriale imponente

Il «made in Italy» detiene la posizione leader nel mercato mondiale dell'acqua minerale, con 177 imprese e 287 marchi, 12 miliardi di litri imbottigliati di cui oltre un miliardo esportato. Gli stabilimenti sono circa 190. Esistono quindi più marchi che impianti di imbottigliamento. Come si spiega? In queste fabbriche dell'acqua si possono miscelare più sorgenti o utilizzare più fonti per diversi marchi che possono avere lo stesso tipo di acqua. In ogni caso, ci sono impianti da un milione di litri all'anno, per lo più per un consumo a livello locale, e strutture più imponenti che possono produrre oltre un miliardo di litri. Si tratta di grandi stabilimenti industriali che servono a imbottigliare note marche apprezzate da americani e canadesi, grandi consumatori di acqua minerale italiana. Nel mondo si consumano 120 miliardi di litri di acqua imbottigliata con un mercato che vale circa 80 miliardi di dollari. L'Europa occidentale consuma un terzo del totale pur avendo solo il 6 per cento della popolazione mondiale, e produce circa 38 miliardi di litri. La corsa al consumo di acqua minerale sembra dunque inarrestabile.

Scopri a chi appartiene l'acqua che bevi

Nestlé: Gruppo San Pellegrino; 3 miliardi di litri
Claudia, Giulia, Levissima, Limpia, Lora Recoaro, Panna, Pejo Pracastello, San Bernardo, San Bernardo Sorgente Rocciaviva, San Bernardo Sorgente della Rocca, San Pellegrino, Tione, Ulmeta, Vera.

Gruppo Acqua Minerale San Benedetto (famiglia Zoppas); 2 miliardi e 300 milioni di litri
San Benedetto, Guizza, Valle Reale, Fonte Caudana, Nepi, Sorgente del Bucaneve.

Gruppo Ferrarelle (ex Danone) Lgr Holding di Carlo Pontecorvo; 900 milioni di litri
Acqua di Nepi, Boario, Ferrarelle, Fonte Vivia, Natia, Santagata, Vitasnella.

Rocchetta S.p.A., Gruppo Congedi (famiglia De Simone); 850 milioni di litri
Rocchetta, Uliveto, Brio blu.
Secondo le valutazioni Beverfood (agenzia di ricerca del settore), i primi quattro gruppi (Nestlé/San Pellegrino, San Benedetto, Congedi/ Uliveto/Rocchetta e Ferrarelle) assorbono circa il 58 per cento del mercato. I primi dieci gruppi (i quattro precedenti, più Spumador, Norda, Sant'Anna, Sangemini, Lete/Prata e Gaudianello) rappresentano circa l'80 per cento del mercato. I produttori leader stentano a mantenere le loro quote, incalzati da un nutrito gruppo di medie aziende molto combattive, che dopo aver conquistato posizioni di leadership a livello regionale, stanno tentando di pervenire a una distribuzione nazionale.

Al primo posto delle acque in bottiglia sia in Italia sia nel mondo troviamo l'onnipresente Nestlé. Il gruppo svizzero detiene il 17 per cento del mercato planetario con un giro di affari, nel 2002, di 60,6 miliardi di euro, oltre un quarto realizzato grazie alle bevande, tra cui l'acqua. Presente in centotrenta nazioni con settantasette marchi, in Italia possiede dieci stabilimenti e marchi famosi tra cui San Pellegrino. Nel nostro Paese realizza un fatturato di 870 milioni di euro di cui 60,2 spesi in pubblicità. Fino a non molto tempo fa un altro grande protagonista del mercato era la multinazionale francese Danone, che recentemente ha ceduto i marchi italiani all'armatore napoletano Carlo Pontecorvo, che così è diventato proprietario tra l'altro della Ferrarelle, centenario marchio di acqua minerale ritornato italiano al prezzo di 130 milioni di euro, secondo indiscrezioni apparse sulla stampa. Alla Holding Ricciardi di Pontecorvo, il 10 gennaio 2006, è così passata la romana Italaquae, numero tre del mercato italiano dell'acqua minerale con una quota di circa l'8 per cento. Oltre a Ferrarelle e Boario, controlla i marchi Santagata e Natia, ha la licenza per quindici anni di Vitasnella e la distribuzione esclusiva in Italia di Evian, fiore all'occhiello di Danone. La multinazionale francese, che ha un giro d'affari in tutto il mondo di 3 miliardi e 700 milioni di euro, ha così abbandonato il complicato mercato italiano dell'acqua minerale. Nel mondo i suoi marchi più venduti sono Evian, Volvic, Wahaha e Aqua.

In questa hit parade delle corporation dell'acqua imbottigliata c'è pure Coca-Cola. Il gruppo americano che ha sede ad Atlanta mantiene lo scettro a livello mondiale nel settore delle bibite ed è l'ottavo gruppo alimentare al mondo. Tra l'altro all'inizio del 2006 ha acquisito le fonti del Vulture tanto care a Pasquale Merlino. Sempre più aggressivo nel mercato delle acque imbottigliate, il gruppo Coca-Cola possiede i marchi: Dasani negli Usa, Ciel in Messico, Nevada in Venezuela, Bon Aqua in Brasile, Kin in Argentina, Vital in Cile. Con il marchio Bon Aqua vende anche in Germania, Svezia, Polonia, Repubblica Ceca, Spagna e Russia. Recentemente ha dovuto ritirare dal mercato inglese migliaia di bottiglie Dasani perché, oltre a essere una comune acqua da tavola, cioè di rubinetto, conteneva bromato in concentrazione troppo elevata, una sostanza che si genera quando un'acqua con un contenuto eccessivo di ferro, manganese o arsenico è trattata con ozono.
Il gruppo veneto San Benedetto possiede quattro stabilimenti e nove marche. Oltre all'omonima marca, commercializza Acqua di Nepi e Guizza (l'acqua minerale più venduta in Italia). Detiene il secondo posto in Italia, con il 19 per cento circa del mercato, è anche tra i primi quattro produttori del mercato spagnolo e si prepara a conquistare il mercato dell'Est europeo in joint venture con Danone. La storia della San Benedetto inizia nel 1956 a Scorzè (Venezia), più precisamente nella località Guizza, nei pressi di un pozzo artesiano tuttora funzionante. Fa parte del gruppo Finanziaria San Benedetto, che ha un giro d'affari di 580 milioni di euro (511 solo il settore acqua) e dà lavoro a 2000 dipendenti. Oltre a imbottigliare per Pepsi-Cola e Ferrero, ha stretto alleanze con Cadbury Schweppes e Danone per l'allestimento di stabilimenti comuni in Europa. Suoi sono anche i marchi Caudana, Oasis, Orangina, Powerade. Nel 2003 ha speso 25 milioni di euro in pubblicità (di cui 24 per spot in Tv), l'8 per cento in più rispetto all'anno prima. Dal 1972 appartiene all'imprenditore veneto Gianfranco Zoppas, che possiede anche il gruppo Zoppas Industries attivo nel settore dei macchinari per la produzione di plastica e delle resistenze elettriche.

Insomma, quello dell'acqua minerale è un settore industriale di tutto rispetto che dà lavoro a 7500 dipendenti diretti e 32.500 nell'indotto. Un mercato esploso nel giro di pochi anni, parallelamente alla demonizzazione dell'acqua di rubinetto, a partire dall'allarme relativo a un famoso diserbante trovato nelle falde. Un allarme lanciato nella seconda metà degli anni Ottanta. «C'era stato il problema dell'atrazina, l'inquinamento aveva fatto scattare l'emergenza e in tante zone della pianura padana non si poteva bere acqua di rubinetto» racconta Marco Mignani, direttore creativo di Euro Rscg, un uomo che ha lanciato marchi di grande successo commerciale e inventore di slogan che hanno fatto la storia della pubblicità, per esempio: «Milano da bere». Questo è il momento in cui si incomincia a diffondere l'idea che l'acqua minerale è alternativa all'acqua di rubinetto... «Più o meno» ammette Mignani. «La mia prima pubblicità è stata quella del lancio dell'Acqua Vera, un'acqua profonda, quasi fossile, perché ci mette vent'anni dalle Dolomiti del Brenta a raggiungere la fonte. Questo viaggio attraverso le ghiaie più profonde la purifica e l'arricchisce di elementi. Dopo questo lungo viaggio forma un enorme lago sotterraneo dalle parti di San Giorgio in Bosco, in provincia di Padova. Basandomi su queste caratteristiche naturali, il lancio di Acqua Vera fu: Acqua Vera, acqua pura, il dono intatto della natura. Avevo puntato su una particolare qualità salutistica, che ha avuto un grande successo. Quell'idea ha poi condizionato molte campagne pubblicitarie.»

Quei messaggi ingannevoli

E così l'acqua minerale ormai fa parte dei nostri consumi quotidiani. È raro infatti che sulle tavole non ci sia una bottiglia di plastica che denota anche un livello di benessere inimmaginabile fino a non molti anni fa, quando l'Idrolitina era il massimo cui potevano aspirare gli italiani che avevano da poco tempo conquistato il diritto ad avere l'acqua potabile in casa. Certo sono lontani i tempi in cui Montecatini esportava 112 barili dell'acqua del Tettuccio: s'era nel 1762 e l'acqua imbottigliata si vendeva ai «signori» per curare i più disparati malanni.
Occorre attendere l'avvento della televisione commerciale per trasformare un prodotto di nicchia in una bevanda di largo consumo. Il merito (o colpa, a seconda dei punti di vista) è da attribuire in gran parte alla pubblicità. Una réclame che spesso confonde le idee, attribuendo all'acqua effetti miracolosi: ad esempio, è assolutamente sbagliato il concetto che l'acqua povera di sodio non faccia ingrassare, favorisca l'eliminazione della cellulite o faccia bene in assoluto. «L'acqua povera di sodio ha una azione diuretica e combatte quindi la ritenzione idrica, ed è indicata terapeuticamente per coloro che soffrono di ipertensione» spiega Michele Carruba, direttore dell'Istituto di Farmacologia dell'Università degli Studi di Milano. «Ma il sovrappeso non ha nulla a che vedere con la ritenzione idrica: l'obesità è causata da un eccesso di lipidi (grassi) nelle cellule adipose; anzi un individuo grasso spesso è anche un individuo disidratato, perché le cellule adipose contengono molta meno acqua di tutte le altre cellule.» Quindi, tranne in casi specifici, sono molto migliori le acque mediamente mineralizzate (come è in genere anche l'acqua del rubinetto), perché contengono opportune quantità di tutti quegli oligoelementi di cui l'organismo ha bisogno, compreso il sodio, che è fra l'altro indispensabile per il corretto funzionamento del sistema nervoso.

«Per quanto riguarda l'acqua del rubinetto, l'unico problema che in genere presenta è che spesso deve essere clorurata per questioni igieniche e il sapore del cloro ad alcuni può non piacere» aggiunge il professor Carruba.
Ma l'acqua di rubinetto non fa sognare, nessuno quasi la pubblicizza. Così, il rapporto emozionale con l'acqua potabile non è molto gratificante. A chi verrebbe in mente di reclamizzare gli effetti antiossidanti e perfino ringiovanenti del selenio disciolto? Ebbene, una nota marca ha impostato la sua campagna proprio puntando su questo argomento. Peccato che il Giurì di autodisciplina pubblicitaria abbia messo «sotto processo » l'ardito spot. Così, è toccato al professor Carruba dimostrare l'infondatezza e di conseguenza l'ingannevolezza di quel messaggio. Infatti, per avere qualche speranza di ottenere un beneficio da quell'elisir dell'eterna giovinezza occorre berne circa 60.000 litri, sì, e per di più in un sol colpo...

Sono tanti i messaggi ingannevoli di cui si è occupata l'Autorità garante della concorrenza e del mercato. A volte si tratta di vera e propria pubblicità occulta. L'Autorità, per esempio, ha pizzicato il settimanale «Amica» che in un articolo apparso sul n. 48 del 1999 si dilungava sulle proprietà della San Pellegrino. Il titolo: Il fresco sapore dell'acqua. Il sottotitolo: Liscia, gassata, effervescente naturale. E con gusti diversi. Come succede per il vino, anche la minerale può avere diversi accostamenti con il cibo. E che dire delle proprietà medicamentose al limite del magico decantate in un articolo pubblicitario dell'acqua Rocchetta comparso sull'inserto «Salute» del quotidiano «la Repubblica»? L'articolo, dopo aver sottolineato le qualità idratanti delle acque minerali («il corpo umano ha bisogno di essere costantemente irrigato e solo con la circolazione continua di liquidi - dall'esterno all'interno e viceversa - si può assicurare una costante idratazione»), evidenzia alcuni effetti benefici che l'acqua Rocchetta avrebbe sulla pelle. In particolare si legge che: «L'acqua Rocchetta presenta caratteristiche analoghe ad alcune acque termali di cui si conoscono i poteri antinfiammatori in generale e, più in particolare, gli effetti terapeutici nei confronti di alcune affezioni della pelle; un effetto depurativo che favorisce il lavaggio interno dell'organismo; acqua cosmetica; acqua amica della pelle». In questo caso, addirittura, il ministero della Salute non aveva rilasciato alcuna autorizzazione ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo n. 105/92 che prevede la preventiva approvazione delle pubblicità di acque minerali «limitatamente alle menzioni relative alle proprietà favorevoli alla salute, alle indicazioni e alle eventuali controindicazioni».

Qualità effervescenti, qualità evanescenti

Molti spot giocano sull'equivoco. Una sfumatura che sfugge alla stragrande maggioranza dei consumatori: «Le proprietà salutari, vantate dalle acque minerali, sono altra cosa rispetto alle proprietà terapeutiche» spiega Vincenzo Riganti, docente di Chimica merceologica all'Università di Pavia. «Non è più previsto che le acque minerali naturali siano dotate di attività terapeutica, bensì più semplicemente di "proprietà favorevoli alla salute". Come se un'acqua da bere potesse avere proprietà contrarie alla salute. Dunque la legge dice che un'acqua "minerale naturale" deve presentare "caratteristiche igieniche particolari e, eventualmente, proprietà favorevoli alla salute". L'aggiunta dell'avverbio eventualmente comporta che la distinzione con l'acqua potabile non sia più necessariamente legata agli effetti; ne consegue il venir meno del precedente obbligo di corredare sempre la domanda di riconoscimento con gli elementi di valutazione delle caratteristiche sul piano farmacologico, clinico e fisiologico. La distinzione sostanziale che rimane nella legge è che le acque minerali naturali devono essere pure alla sorgente e tali rimanere fino al consumo.»
Il problema è che, dalla fine del 2003, la legge permette ai produttori che dovessero superare i nuovi parametri di trattare l'acqua con ozono per abbattere il tenore di ferro, manganese e arsenico. Con l'inconveniente che si può produrre un pericoloso sottoprodotto: il bromato.

Acqua minerale per cani

Inseguendo il fascino delle bollicine, negli Usa si è arrivati a commercializzare un'acqua minerale per cani, gatti, criceti e uccelli, con un'etichetta che avverte che non è adatta al consumo umano. Bill e Rhonda Fels, una coppia di coniugi di Lawsonville, nella North Carolina, hanno avuto l'idea di produrre e vendere PetRefresh, un'acqua senza fluoruro e cloro che ha essenze ghiotte per gli animali come quella di carne e pesce. Secondo i coniugi Fels, l'acqua del rubinetto sarebbe dannosa per gli animali domestici, perché causerebbe danni ai reni, alle vie urinarie e alle ossa. Comunque sia, l'idea di Bill e Rhonda Fels è diventata un business: vendono acqua per animali da quella che era una fattoria per la produzione del tabacco a Lawsonville, al costo di 1,49 dollari per una bottiglietta da un quarto di litro. Un'attività che va a gonfie vele: nel giro di nove mesi, le vendite sono passate da 1300 bottiglie al mese a oltre 50.000. E, adesso, l'acqua minerale per animali si può acquistare anche su Internet. Un commercio alquanto bizzarro che i Fels stanno pensando di ampliare, lanciando un'acqua per cavalli con delle vitamine aggiunte, dal nome evocativo EquiFresh.

Non è dato sapere se il lancio dei nuovi prodotti sia stato accompagnato da una ricerca di mercato con interviste ai nuovi consumatori. Ormai siamo entrati in una dimensione da cui sarà difficile uscire e che ora coinvolge anche gli amici animali.

È «guerra» tra rubinetti e bottiglie

In queste ultime pagine ci siamo soffermati nell'analisi di alcuni fatti poco noti la cui conoscenza è utile non solo per fare acquisti più consapevoli, ma soprattutto per capire che cosa si nasconde dietro il florido commercio dell'acqua. A proposito, sapevate che l'acqua che sgorga dai vostri rubinetti è quasi sempre oligominerale, cioè con un contenuto di residuo fisso al di sotto di 500 milligrammi/litro? Insomma, molti acquedotti forniscono acqua minerale, ma per legge non possono definirla «naturale». Come dimostra lo strano caso del Consiag (consorzio di acque potabili poi confluito nella società Publiacqua S.p.A. di Firenze) accusato da Mineracqua di usurpare la denominazione «acqua minerale naturale». La guerra tra acqua di rubinetto e acqua minerale è scoppiata tra il 1998 e il 1999, quando il Consiag ha lanciato un'insolita e massiccia campagna pubblicitaria attraverso vistosi cartelloni apparsi in venti comuni nelle province di Firenze e Prato. Per Mineracqua era intollerabile quella pubblicità «suscettibile di ingenerare nel consumatore confusione tra l'ordinaria acqua potabile distribuita dal Consiag e le acque minerali naturali». Curiosamente l'esposto all'Autorità garante della concorrenza e del mercato non parte da Mineracqua ma dall'Associazione a tutela dei consumatori che ha segnalato la presunta ingannevolezza del messaggio. Lo slogan che aveva fatto infuriare i produttori di acqua minerale è malizioso: «Se pensi che l'acqua di casa non sia buona, te l'hanno data a bere». Acomplicare le cose c'è l'immagine in bianco e nero di un bambino che beve e la scritta: «Consiag, minerale naturale a casa tua».
Analoga la vicenda di una campagna pubblicitaria lanciata il 27 dicembre 2004 da Acea S.p.A., il gestore pubblico-privato che distribuisce l'acqua ai romani. Tutto era cominciato con un comunicato stampa: «È buona come un'acqua minerale, anche di più. È sicuramente meno costosa e non è carica di calcio, come vuole una leggenda metropolitana». Lo slogan utilizzato era: «A Roma l'acqua di montagna sgorga dal rubinetto: pura acqua di sorgente, buonissima da bere».
Con grandi manifesti 6 × 3 a sfondo giallo ocra e di formato più piccolo affissi in città, l'azienda capitolina quotata in Borsa intendeva pubblicizzare il suo core business, così come si fa con un prodotto qualsiasi.
La «dichiarazione di guerra» era stata lanciata ai produttori di acqua minerale che certo non potevano rimanere impassibili. Loro che in una Guida per il consumatore distribuita con la stampa benevola, tra i consigli utili per il consumatore, avevano scritto: «Evita assolutamente l'impiego di ghiaccio, che da un lato ne altera il gusto e, dall'altro, ne contamina la purezza originaria».
L'acqua di Roma, fa notare Acea, è costantemente monitorata dal laboratorio Acea di Grottarossa che controlla tutta la rete idrica. Nel 2004 sono stati raccolti circa 7000 campioni, 40 al giorno, ed effettuati 250.000 controlli.
Come era già accaduto nel caso del Consiag, scatta la rappresaglia di Mineracqua, che si rivolge all'Autorità garante della concorrenza e del mercato. Sono due gli elementi che fanno imbufalire Mineracqua: l'uso delle parole «pura acqua di sorgente» e «acqua di montagna». Allora, l'aggettivo pura lo può usare solo l'acqua minerale (per legge). La denominazione acqua di sorgente «è abusiva» in quanto l'acqua di sorgente è un'altra categoria commerciale diversa dall'acqua di rubinetto. Acea inoltre non può dire che la sua è acqua di montagna (ricordate qualche slogan famoso all'insegna dei superlativi?), perché le sorgenti del Peschiera di trovano a soli 416 metri di altitudine. Sulla base di queste argomentazioni, l'Autorità antitrust avvia la sua istruttoria.

Sorprendente la conclusione dell'Autorità: acqua minerale e acqua di rubinetto sono concorrenti, «essendo l'acqua minerale un prodotto il cui consumo può essere alternativo a quello dell'acqua del rubinetto pubblicizzata». Alla fine di una lunga e complessa istruttoria, l'Autorità prende una decisione salomonica: «Le indicazioni fornite nel messaggio non appaiono mendaci, né tanto meno idonee a ingenerare nei consumatori falsi convincimenti in relazione alle caratteristiche dell'acqua erogata agli utenti di Roma, di cui si limita a sottolineare la provenienza da sorgenti naturali, la potabilità, le apprezzabili caratteristiche organolettiche». Tuttavia, l'Autorità ritiene di sanzionare Acea perché «il messaggio pubblicitario, con esclusivo riferimento alla dicitura acqua di montagna, è idoneo a indurre in errore i destinatari relativamente all'origine dell'acqua cui si riferisce potendo, per tale motivo, pregiudicarne il comportamento economico».

Ma quante acque esistono?

Come abbiamo avuto modo di vedere, non è più possibile parlare solamente di acqua, quanto piuttosto di vari tipi di acque, secondo criteri più commerciali che reali. Per legge esistono quindi tante «acque da bere»: acqua potabile, acqua minerale naturale, acqua di sorgente, acqua da t



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2 Commenti

ho un problema nel mio comune di residenza.
il comune ha comunicato che l'acqua non è potabile,perchè sono state trovate trcce di manganese.
cosa provoca al corpo,quale rischo si corre utilizandola.

Grazie per la preziosa "fonte" di informazioni

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