Farmaci e macchine per avere un supercervello
Farmaci e macchine per avere un supercervello
Medicinali e dispositivi tecnologici per aumentare le nostre capacità cognitive: non è fantascienza, ma già realtà. Un processo da governare e non subire. Per evitare mostri umani
A San Francisco il Thync lo si indossa ai concerti, serve per immergersi completamente nella musica. È un triangolino di plastica grande quanto il palmo di una mano, da applicare sulla tempia: serve per cambiare l’umore a comando. Induce uno stato di calma o di energia, basta scegliere lo stato desiderato dall’app sul telefonino. Inventato dallo scienziato americano Jamie Tyler, è uno stimolatore che manda impulsi elettrici di bassa intensità ai nervi cranici; in teoria si dovrebbe sentire un’onda di energia (o calma) invadere cervello e muscoli, ma non a tutti fa lo stesso effetto.
Dalla primavera è in commercio negli Stati Uniti, mentre bisognerà attendere l’autunno per acquistarlo in Europa, anche se il prodotto è stato presentato a Londra a inizio giugno. Tutti pronti, dunque, a diventare super uomini con l’elettrodo? È la stessa domanda che la Commissione Europea sta ponendo ai cittadini di 11 Paesi europei - fra cui l’Italia - attraverso il progetto Nerri, che sta per Neuro-Enhancement responsible research and innovation, cioè Ricerca e Innovazione responsabile per il Neuro-Potenziamento. L’Europa ha messo a disposizione 3,6 milioni di euro per facilitare il dialogo sociale - attraverso dibattiti, convegni, interviste - sul potenziamento cognitivo ed elaborare le linee guida, etiche e giuridiche, nazionali ed europee, per l’utilizzo di smart drug (“droghe furbe”, farmaci non sempre legali, che rendono il cervello più tonico e performante) e dispositivi tecnologici che aumentano le potenzialità cognitive.
l piano Nerri ha coinvolto 17 centri di ricerca, di cui due italiani: la triestina Sissa, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati, e la fondazione senese Toscana Life Sciences che riunisce i centri di ricerca della Scuola Normale Superiore e la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, l’Imt di Lucca e le Università di Siena, Pisa e Firenze. «Il potenziamento cognitivo non è qualcosa che verrà, è già ampiamente presente. A seconda dei paesi c’è un’attitudine diversa ad utilizzarlo. Gli inglesi sono i più avvezzi, tanto che all’Università di Oxford una corrente di transumanisti pensa che l’uomo abbia il dovere di migliorare se stesso, invece in Germania e in Austria l’argomento è tabù, nell’imbarazzo generale di quello che fu il cieco obiettivo della perfezione ariana», racconta Agnes Allansdottir, islandese, in Italia da oltre venti anni, laureata in Psicologia Sociale alla London School of Economics e ricercatrice alla Toscana Life Science: «Secondo la Commissione europea questi sono processi da governare e non da subire, per evitare di ritrovarsi situazioni ingestibili, mostri umani o tecnologici con cui fare i conti».
Per il progetto Nerri Allansdottir sta ultimando la pubblicazione scientifica sulla percezione che gli italiani hanno del Neuro-Potenziamento. «L’analisi dei questionari non è ancora ultimata, ma alcune considerazioni si possono già fare», dice. Più di altri gli italiani hanno paura di essere obbligati dal datore di lavoro a utilizzare device tecnologici o farmaci per essere più performanti. «In alcune professioni l’uso di pillole che aumentano l’attenzione è già caldeggiato. Piloti, turnisti, addetti agli altiforni, chirurghi che lavorano 18 ore di fila, militari, sono gli esempi che più suscitano apprensione». L’altro timore è che qualcuno possa leggere, o controllare, i pensieri.
Fantascienza? Non proprio. La start up di Siena Liquid Web sta perfezionando Brain Control, un drone capace di ascoltare l’attività elettrica del cervello e muoversi di conseguenza. Nasce per aiutare le persone giunte a stadi avanzati di sclerosi laterale amiotrofica e sclerosi multipla ad affrontare la sindrome di “locked-in”, l’imprigionamento nel corpo di una mente ancora attiva (famoso il caso di Jean-Dominique Bauby, autore del libro autobiografico “Lo Scafandro e la Farfalla”). Brain Control percepisce gli stimoli cerebrali e li comunica all’esterno, oltre a compiere le azioni che il paziente pensa e vorrebbe fare. Detto in altri termini: legge nelle loro menti.
«È sterminato l’elenco di tecnologie inventate per combattere deficit fisici o mentali e, in un secondo momento, sfruttate da persone non malate per aumentare le proprie capacità». Come il neuro stimolatore Foc.us, creato per aiutare chi soffre di deficit di attenzione. Oggi è “il primo neurostimolatore al mondo”, dice il sito web inglese www.foc.us. Bastano 300 dollari per farsi spedire a casa l’oggetto, che aumenta le performance cognitive. Lo usano i nerd, gli hacker e i game addicted, cioè gli appassionati di videogame: è un cerotto che, messo sulla fronte, rilascia una scossa elettrica sfruttando quella che in medicina viene definita la stimolazione transcranica con correnti dirette. All’apparenza è simile agli elettro-stimolatori per i muscoli: quelli rassodavano la pancia, mentre Foc.us tonifica il cervello - forse. Anche qui i risultati non sono univoci. «In Italia i ragazzini ne fanno ampio uso», conferma la ricercatrice.
L’Università di Oxford e il professor Simone Rossi dell’Università degli Studi di Siena stanno cercando di misurarne l’efficacia: «In persone lente nel calcolo numerico e nei test logici porta a un lieve miglioramento. Tuttavia non si sa quali siano gli effetti a lungo termine, non sappiamo se è pericoloso. Questa è un’altra delle maggiori preoccupazioni per francesi e italiani, che sono particolarmente attenti al benessere», prosegue Allansdottir: «Le neuroscienze stanno facendo passi da gigante e interferiscono sempre più con la sfera intima dell’uomo, con la sua psiche, ma non sappiamo fin dove ci si può spingere e se a lungo andare possano esserci effetti collaterali».
Un confine delicato, come racconta la neuroscienziata Suzanne Corkin, professoressa emerita al Massachusetts Institute of Technology, nel suo libro “Prigioniero del presente” (Adelphi). Qui la Corkin racconta il suo rapporto con Henry Molaison, ventisettenne del Connecticut che nel 1953 viene sottoposto a un intervento sperimentale di “psicochirurgia” per combattere una forte epilessia. La malattia si attenua, ma H.M. (come sarebbe stato conosciuto per il resto della sua vita) perde la capacità di trattenere qualsiasi ricordo per più di 30 secondi. La Corkin si occupa di questo caso per più di cinquant’anni e nel suo libro, quasi un’autobiografia, emerge la consapevolezza che sperimentare sul cervello significa interferire con l’Io e con l’identità delle persone.
Economicamente il settore porterà lontano, se si considera che l’American Psychological Association l’ha definita un’industria da un miliardo di dollari soltanto negli Stati Uniti. I clienti, per ora, sono soprattutto anglosassoni, perché qui la competizione è un valore primario e le famiglie coltivano il sogno di vedere il figlio studiare ad Harvard o Cambridge. Così farmaci come Ritalin e Modafinil vengono utilizzati da più del 10 per cento degli studenti dei college per migliorare le performance scolastiche.
In Italia gli psichiatri Gian Maria Galeazzi e Marcella Pighi dell’Università di Modena, coinvolti nel progetto Nerri, hanno condotto l’indagine “Uso e propensione all’uso di Cognitive Enhancer in studenti universitari di medicina”, su un campione di 363 studenti della facoltà romagnola per capire quanto il potenziamento cognitivo fosse diffuso. Si tratta dell’unica ricerca condotta in Italia e dice che l’86,8 per cento dei giovani ha fatto uso di stimolatori cognitivi almeno una volta nella vita. «La stragrande maggioranza di loro, però, ricorre a sostanze naturali, caffè per restare svegli e studiare la notte (73 per cento), bevande energetiche o a base di caffeina. Solo 7 studenti (meno del 2 per cento) fa uso di amfetamina e nootropi (smart drugs)». Metà degli studenti ha sentito parlare dell’utilizzo di psicostimolanti come potenziatori cognitivi, ma oltre l’83 per cento non li assume perché pensa che siano dannosi per la salute.
«Il fatto che gli studenti di medicina non utilizzino smart drugs in modo massiccio non significa che l’Italia sia al riparo da queste questioni», spiega Agnes Allansdottir, soprattutto se si guarda alla risposta che i ragazzi hanno dato alla domanda: “Assumerebbe una sostanza legale che migliora le prestazioni cognitive senza effetti collaterali?”. Il 60,3 per cento dei futuri medici ha risposto sì, per far fronte a stress da studio o perché ha scarsa considerazione della propria capacità cognitiva. «Tempo fa molti limitavano l’uso del cellulare perché pensavano che le onde danneggiassero il cervello. Ora si sono trovate soluzioni e il cellulare è diventata un’estensione della nostra vita. Con i cognitive enhancer in Italia siamo a questo punto: molti li vorrebbero usare, ma ne temono ancora gli effetti», dice la ricercatrice. Mettiamola così: gli italiani sono quasi pronti al potenziamento cognitivo.